“Spara! Sparami qui! Vediamo se sei capace”. Devono essere state più o meno queste, secondo la ricostruzione degli inquirenti, le parole rivolte da Arcangelo Correra al suo amico Renato Caiafa, che brandiva la pistola che poi lo ha ucciso. “Arcangelo lo sfidava a sparare, mostrando il petto… tutti guardavano nella loro direzione e, una volta esploso il colpo, gli hanno urlato ‘cosa hai fatto'”: è da brividi il racconto contenuto nell’ordinanza con la quale il gip di Napoli ha disposto il carcere per il 19enne Caiafa reo confesso dell’omicidio dell’amico di 18 anni. Arcangelo è stato ferito a morte all’alba di sabato scorso in una piazzetta nel cuore di Napoli e poi è morto verso le 11 nell’ospedale Vecchio Pellegrini dove lo stesso Caiafa e un altro ragazzo l’avevano accompagnato in sella a uno scooter. Il 19enne ha più volte sostenuto di essersi reso conto che quella era un’arma vera e propria solo “al momento dello sparo” e solo dopo avere visto “il sangue di Arcangelo a terra”. E, afferma il gip, sebbene possa ritenersi plausibile l’ipotesi del gioco finito in tragedia, è invece inverosimile che, come sostenuto dal ragazzo, l’arma sia stata trovata per caso, sopra la ruota di una macchina parcheggiata. A Caiafa per ora viene contestato il porto, la detenzione e la ricettazione della pistola che avrebbe sparato, una calibro 9×21 rubata, con la matricola cancellata, senza il tappo rosso e con il caricatore maggiorato, nascosta e recuperata solo grazie alla madre dell’indagato. Un’arma (“forse destinata all’uso predatorio”) che Caiafa avrebbe scorto sullo pneumatico di un’auto parcheggiata e poi preso, non sapendo se vera o giocattolo. Ma, per il giudice, solo chi sapeva che era lì poteva recuperarla nelle prime e più buie ore di quel drammatico sabato, in quanto si tratta di un’arma nera, nascosta tra una ruota anch’essa nera e la carrozzeria della vettura. In sostanza, secondo il gip, l’arma era già nella disponibilità di quei quattro ragazzi.
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